Il Decreto Delegato “Interventi per l’occupazione, la formazione e le politiche attive del mondo del lavoro” nasce con buone intenzioni: creare una sorta di “testo unico” degli incentivi per l’avviamento al lavoro, riformarne alcuni passaggi e prevedere anche nuove forme di incentivazione per le esigenze più attuali che ad oggi non trovano risposta nella legislazione.
Vengono tra l’altro introdotte norme di incentivazione per situazioni obiettivamente interessanti, tra cui citiamo: l’affiancamento di nuovi lavoratori ai pensionandi; l’inserimento in azienda di nuove persone part-time per completare l’orario di lavoro delle lavoratrici che hanno diritto ad ottenere il part-time post partum; il diritto per le donne di ottenere il part-time fino al completamento della scuola elementare del proprio figlio.
Purtroppo, assieme a queste normative positive, ci sono elementi obiettivamente pericolosi che fanno tornare le lancette del tempo indietro di diversi anni, riportando in auge modalità di incentivazione che hanno già mostrato non solo il loro fallimento ma anche il loro grado di pericolosità.
Citiamo ad esempio l’articolo 5, che prevede incentivi per l’assunzione rivolti a categorie molto ampie di lavoratori (disoccupati da soli due mesi, percettori di ammortizzatori, over-50, invalidi, ecc.) che però sono erogati anche in caso di assunzione a tempo determinato degli stessi. E siccome l’incentivo prevede, anche in questo caso, che una parte significativa della retribuzione del lavoratore venga pagata dallo Stato, cosa può accadere? Quello che accadeva fino al 2017 e che aveva portato alla revisione delle modalità di incentivazione allora esistenti: che si favorisce incredibilmente il “turnover” aziendale, cioè l’assunzione di un lavoratore a tempo determinato con gli incentivi e poi la sua sostituzione con un altro lavoratore nel momento in cui il rapporto di lavoro andrebbe trasformato a tempo indeterminato, senza mai garantire una stabilizzazione lavorativa a nessuno e semplicemente mettendo a carico dello Stato una parte della retribuzione. Fantascienza? No, esattamente quello che succedeva appunto fino al 2017, quando vi erano forme di incentivazione che funzionavano più o meno così e che avevano creato proprio questi effetti. Un sistema completamente errato a cui oggi torniamo.
La norma, poi, “abolisce” formalmente l’apprendistato anche se, nell’articolo 2, prevede norme che ne ricalcano abbastanza precisamente il funzionamento. C’è però una differenza importante: l’apprendistato, precedentemente, prevedeva sì incentivi per i datori di lavoro attraverso un abbattimento retributivo del lavoratore fino a tre anni (sull’idea della scarsa esperienza del lavoratore stesso) ma l’assunzione doveva essere a tempo indeterminato!! L’idea era che l’abbattimento retributivo fosse legato ad un percorso formativo che portasse il giovane ad una stabilità lavorativa in azienda. Con l’articolo del governo, invece, restano immutati gli abbattimenti retributivi (fino al 25% della retribuzione) che però sono erogati anche in caso di assunzione a tempo determinato. Un errore clamoroso che, anche qua, può generare fenomeni assolutamente distorsivi di turnover di lavoratori (giovani in questo caso) senza mai potersi stabilizzare.
Va stigmatizzato con forza anche l’intervento sugli “stage aziendali”, forma di attività estremamente precaria che può facilmente configurare un lavoro subordinato mascherato. Il limite massimo di due stage per ogni individuo, prima previsto, sparisce per i neolaureati e i neodiplomati nonché per i giovani che abbiano ottenuto l’attestato di qualifica professionale; in più, si dice che, per le imprese con più di 20 dipendenti, possono essere attivati contemporaneamente stage aziendali pari al 10% dei dipendenti assunti: in pratica, un’azienda con 300 dipendenti può avere 30 stagisti contemporaneamente attivi!! Considerando che la “retribuzione” di questi lavoratori è pari al 50% di quanto contrattualmente previsto, si capiscono i grandi rischi di precarizzazione del lavoro che questo articolo porta con sé.
Potremmo fare anche altri esempi di gravi errori contenuti nel Decreto, ma si comprende bene già da questi passaggi quanto sia potenzialmente pericolosa questa norma, che fa tornare a tempi bui che erano stati faticosamente superati e reintroduce strumenti distorsivi di cui, tra l’altro, non vi era alcuna necessità, dato che oggi finalmente è stato certificato (sulla base dei criteri definiti dalla Commissione per il Lavoro nella passata legislatura – nell’ottobre 2019 – per definire cos’è un disoccupato) che la disoccupazione sammarinese è a livelli minimali.
Tutti rischi che abbiamo evidenziato nel dibattito in Consiglio, naturalmente inascoltati da una maggioranza che ha votato tutto senza farsi domande. Un peccato che compensa abbondantemente le cose positive che il Decreto introduce e pone grandi rischi che speriamo vengano mitigati in futuro.