PierLuigi Zanotti sui servizi elettronici di recapito certificato (Decreto 65/2018)

PierLuigi Zanotti sui servizi elettronici di recapito certificato (Decreto 65/2018)

Pier Luigi Zanotti

Il presente decreto tratta di una materia piuttosto tecnica. Chiaramente non è tanto sugli aspetti tecnici che il dibattito politico si dovrà soffermare, ma sul significato e gli effetti di questa transizione tecnologica, che è tutto sommato piccola in sé, ma generatrice di conseguenze molto più grandi e presumibilmente positive.

Il decreto delegato 2016 nr.46, che definiva l’utilizzo di servizi elettronici di recapito certificato, nelle disposizioni attuative demandava l’adozione di disposizioni alla commissione Tecnica per l’Innovazione Tecnologica, in attesa di un quadro normativo e tecnico più chiaro in ambito europeo.
Questo era necessario sia perché come piccolo stato non abbiamo le risorse e la forza di creare stack tecnologici di questo livello sia soprattutto perché la materia è in fase di standardizzazione da parte dell’unione europea e noi, come micro-stato, non possiamo che adeguarci agli standard dei grandi paesi vicini. Tanto più in questa fase in cui gli accordi di associazione con l’Unione Europea stanno entrando in una fase decisiva.

La PEC italiana, obbligatoria per imprese e professionisti dal 2008, è stata un grande passo che ha posto l’Italia all’avanguardia tecnologica in questo particolare settore. Ad esempio gli avvocati la utilizzano per comunicazioni a valore legale, per ricevere notifiche dagli uffici giudiziari, per depositare gli atti presso il tribunale. La PEC però ha diversi limiti:

  • è un’invenzione italiana e lo standard della PEC non è riconosciuto a livello internazionale. Questo è decisamente il limite maggiore
  • nel Registro Imprese molti indirizzi PEC sono non funzionanti: ciò ha l’effetto di rendere invalida la comunicazione o notifica, al pari della raccomandata tornata al mittente per irreperibilità
  • i limiti dimensionali connessi alla PEC – massimo 30MB per messaggio – in alcuni contesto costituiscono un limite per l’operatività. Si veda ad esempio il deposito di atti da parte degli avvocati presso gli Uffici Giudiziari, che possono essere formati da documento molto corposi
  • Non è ancora stato istituito il Registro degli indirizzi PEC del cittadino: il progetto secondo cui ogni cittadino avrebbe dovuto munirsi e comunicare un indirizzo PEC al quale ricevere esclusivamente comunicazioni da parte della Pubblica Amministrazione come multe, cartelle esattoriali, etc.

A livello europeo si sta standardizzando tecnologicamente il nuovo servizio fiduciario – noto con la sigla SERC –  le cui basi sono definite dal regolamento europeo eIDAS sul quale il presente decreto ed il decreto 2016/46 sono basati.
Si valuta che entro febbraio 2019 l’ETSI, l’ente europeo che ha il compito si sviluppare gli standard nell’ambito delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT), produrrà le specifiche ufficiali di questo servizio.

Questo servizio andrà a sostituire la PEC nel lungo termine, probabilmente la affiancherà nel corto e medio termine: la notizia positiva è che risolverà alcuni limiti della PEC, avrà ulteriori criteri di sicurezza e sarà basato non esclusivamente su posta elettronica ma anche su interfacce informatiche che in gergo tecnico sono chiamate web services, ampliandone quindi le possibilità di utilizzo e la pervasività.
L’altro aspetto positivo è che l’Italia con il decreto 2017/217 ha modificato il Codice dell’amministrazione digitale (CAD) stabilendo che dove la legge consente l’utilizzo della PEC è ammesso anche l’utilizzo di altri servizi di recapito certificato definiti dal Regolamento eIDAS. Quindi, in pratica, utilizzare servizi definiti dallo standard europeo non sarà un limite nel dialogo con le pubbliche amministrazioni e le aziende italiane.
In ogni caso ogni sistema proprietario nazionale sarà prima o poi soppiantato dal sistema comunitario europeo.

Domicilio digitale

Il domicilio digitale è un’altra grande innovazione perché permette per ogni impresa, professionista e privato cittadino di eleggere un domicilio “virtuale” per ogni comunicazione da/verso la pubblica amministrazione e gestori di servizi di pubblica utilità. Abbiamo pertanto la possibilità di superare la posta tradizionale, con risparmio di tempi e costi da parte di tutti. È un cambio di mentalità prima che un’evoluzione tecnologica, visto che siamo così tanto legati ancora alla vecchia e buona “carta”: per alcuni sarà più facile e per altri no, ma è ormai una via tracciata da cui non si tornerà indietro.

Cambio di mentalità nella pa

In questi anni sono stati progressivamente aperti servizi online in vari ambiti. Questo decreto aggiunge un tassello importante al processo di modernizzazione del rapporto PA/cittadini e PA/imprese e anche tra enti della PA allargata. La tecnologia è matura ed anche i tempi sono quelli giusti – come ho descritto poco fa – per adeguarsi alle norme internazionali: la competitività e l’attrattività del sistema si fa anche con questo misure.

Una necessaria conseguenza di questo tipo di misure è che presuppone una più alta qualità del personale della PA. La transizione ad un modo di lavorare più tecnologico, ad una sempre più spinta intermediazione nel rapporto PA/cittadini attraverso strumenti tecnologici, mette il dipendente pubblico in una situazione diversa dal passato. Non colloquia più dal vetro dello sportello con la persona, ma attraverso computer. Non maneggia più fogli e moduli firmati ma documenti informatici firmati digitalmente.

Le interazioni uffici/utenti e i compiti degli uffici sono molto più variegati e complessi che in passato: l’aumentare della complessità esige come prima cosa, prima della preparazione tecnico-giuridica, capacità organizzativa. Inutile padroneggiare una materia ma non riuscire a governare e organizzare il proprio ufficio a dovere. Questo deve essere uno dei temi di fondo da affrontare nella riforma della PA riguardo allo status, ai compiti dei dirigenti e ai metodi di selezione.

È inoltre necessario dare un impulso di formazione per tutti i dipendenti che usano tali strumenti, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche nella sfera della responsabilità e atteggiamento.

Un impiegato pubblico deve al giorno d’oggi avere la mentalità di abbracciare la tecnologia come strumento imprescindibile, sentirsi responsabile dei processi che svolge: spesso noto che invece prevale la mentalità difensiva che delega a chi è “esperto” in tecnologia anche i più piccoli problemi. Non si dovrebbe mai più sentire la frase “io non capisco niente di computer” in un impiegato, perché non si pretende dalle persone di essere laureati in ingegneria ma di conoscere le basi degli strumenti usati quotidianamente. Se ho fatto un corso di formazione che mi ha insegnato da “A” a “B”, quando mi capita un giorno di andare da “A” a “C”, dove “C” è quasi uguale a “B”, non posso dire “non me l’hanno insegnato al corso di formazione”. Questa mentalità che tende sempre a delegare o arrendersi deve essere sostituita da un atteggiamento più proattivo: basta molto spesso un piccolo sforzo per risolvere i problemi che si presentano ed acquisire gli skill una volta per sempre.
Cosa voglio dire con questo? L’aumento della tecnologia deve correre parallelamente ad una mentalità più flessibile, più pronta ad affrontare l’imprevisto e i cambiamenti, più pronta ad abbracciare le necessarie evoluzioni normative e tecnologiche, meno difensiva, meno legata ad un insieme rigido di mansioni.

Senza questa cultura nuova nella PA, dal dirigente all’ultimo degli impiegati, la tecnologia può diventare talvolta anche un ostacolo invece che strumento di efficienza e sviluppo.
Mi rendo conto che facile è dirlo in un discorso, ben più complesso realizzarlo nella pratica, ma è appunto questo il compito della politica. Questa mentalità più moderna e flessibile, che non è un “plus” ma una vera necessità, non può essere realizzata se non attraverso norme che assecondino un sistema più meritocratico, che ha il coraggio di premiare chi è più bravo e inneschi un circolo virtuoso delle competenze.

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